Basket: 10°episodio de “I cinni del ’90”

…Il giorno dopo si disputarono alla mattina i quarti di finale e alpomeriggio le semifinali. Giocammo i quarti alle 10:00 contro Pesaro, vincendo di soli dieci punti e facendo molta fatica. Riuscimmo a ribattere colpo su colpo il loro gioco molto “perimetrale”, bravi nel tiro da fuori, con una percentuale migliore al tiro. In campo, furono bravi un po’ tutti, ma in particolare Rota, Menarini e Romagnoli.

Poi, alle 18:00, si disputò la nostra semifinale contro Pordenone, che aveva vinto un po’ a sorpresa contro i nostri amici/nemici di Rimini. Anche in questa partita facemmo più di ottanta punti, ripetendo, seppur stanchi, la performance al tiro della mattina. Finì 87 a 64 per noi, con ben sei giocatori in doppia cifra: non male per una semifinale di questo livello.

La finale del Torneo Zanatta

Non avrei mai pensato a un simile risultato per i nostri ragazzi. Durante il torneo ero giunto a convincermi della possibilità di arrivare tra le prime otto, ovviamente senza mai azzardare l’ipotesi di una finale (per di più contro i super favoriti del torneo, a detta di tutti la miglior squadra della categoria BAM di allora in Italia). Al contrario, i miei ragazzi, sin dal comportamento e atteggiamento in partita e fuori dal campo, avevano dimostrato di credere nella finale, forti di una determinazione insospettabile. Infatti, a differenza di altre volte, i vari Gabbino, Gabbone, Rota e Minetto, con effetto trainante sugli altri compagni, erano stati ancora più attenti alle sollecitazioni tecnico/tattiche e alle direttive comportamentali per le ore di risposo. Fu un chiaro segno dell’importanza che il gruppo stava dando al momento favorevole che si era venuto a creare. Ne fui molto contento. Stavano iniziando a essere consapevoli – forse più di me, a questo punto! – di essere diventati un gruppo coeso e capace di raggiungere risultati sportivi che solo qualche mese prima nessuno avrebbe creduto possibili… Si trattava forse di un caso di crescita spropositata di autostima? Lo verificammo quel giorno, alle ore 16:00 di un pomeriggio molto freddo fuori e, purtroppo, anche dentro al campo.

Non era mia abitudine tenere i ragazzi troppo inquadrati fuori dalla palestra, sia a Bologna che durante le competizioni fuori città e su più giorni, a meno che non fossimo in assenza della compagnia di parenti adulti – a quel punto la responsabilità nei loro confronti mi portava giustamente a restringere i “paletti” entro i quali concedere libero movimento. Perciò, data la presenza numerosa di genitori – disposti ad accudire i propri figli cedendo camere d’albergo e alloggi in camper – lasciai che le ore intercorrenti fra la sveglia e il raduno per la finale del pomeriggio fossero utilizzate dai ragazzi liberamente, per visitare la città con le famiglie o restare nei camper a riposare. Mi raccontarono in seguito di essersi divertiti molto, in particolare i “camperisti”, curati e rifocillati per tutto il tempo dalle famiglie Monari e Angelini. Io, nel frattempo, tentavo di recuperare almeno mentalmente il dispendio dei giorni precedenti, concentrandomi su un piano-partita adeguato alla sfida che ci aspettava di lì a poco. Nelle precedenti quattro giornate del torneo eravamo riusciti a vedere giocare la Benetton in un solo caso, contro Pordenone. Per il resto, solo spezzoni: non era molto. In alternativa, avevamo a disposizione i più svariati commenti e giudizi a riguardo, raccolti dagli altri allenatori nelle pause tra una partita e l’altra, oppure provenienti dalle letture di notizie su internet che i siti di basket già allora diffondevano su questa importante manifestazione giovanile. Tutto portava alla conclusione che Bologna (così eravamo chiamati, vista la squadra “mista”) non avrebbe avuto scampo contro i favoritissimi di Treviso.

I ragazzi, pur essendo all’apparenza abbastanza tranquilli mentalmente, erano in chiaro deficit fisico: quasi tutti negli ultimi giorni e nelle ultime ore del torneo avevano passato molto del loro tempo nei camper, ormai divenuti “situation room” della nostra squadra, per farsi massaggiare le gambe dall’elettrostimolatore di Carnevali o dalle mani di papà Fin, nominato sul campo nostro massaggiatore ufficiale pro tempore. Altre volte erano lì semplicemente per riposare, lontano dal disturbo provocato del viavai tipico delle camere d’albergo.

In considerazione di tutto ciò pensai che avremmo dovuto affrontare la partita cercando di essere consci che se c’era qualcuno che aveva qualcosa da perdere sarebbe stato il nostro favoritissimo avversario. Era opportuno far passare questo messaggio e renderlo chiaro nella mente di tutti noi. Per quanto riguardava invece l’aspetto tecnico e tattico, non avendo modo, desiderio e tempo per fare qualcosa di nuovo, cercammo il più possibile di individuare bene gli accoppiamenti difensivi e di ricordare a tutti quali fossero i punti deboli degli avversari su cui potevamo far leva per giocarci la partita. Decisi che contro questa squadra così attrezzata e organizzata non sarebbe stata opportuna, almeno a inizio partita, la difesa run and jump, da tenere in serbo per altri momenti. Ero dell’idea che una difesa a zona dispari fatta bene sarebbe servita a mettere qualche sassolino – se non un bastone – tra gli ingranaggi quasi perfetti che l’allenatore della Benetton era riuscito a creare con i suoi ragazzi talentuosi. In fondo, nonostante a quel punto della stagione non avessimo ancora mai provato in allenamento nulla del genere, pensai che l’averlo già fatto non ci avrebbe dato comunque nessuna garanzia di successo. Alla fine, gli avversari che ci attendevano erano ragazzi come i nostri, certamente più “fisici” e preparatati, ma non certo con più talento o voglia di vincere: “Giochiamocela alla pari!” fu il mio ultimo pensiero al momento di varcare la soglia dello spogliatoio per il discorso pre-partita.

La Finale si svolse sul campo A della Ghirada, con un foltissimo pubblico, così numeroso che le tribune laterali del campo, le panchine e il tavolo dei giudici di gara non bastarono a contenerlo (sarebbe stato meglio scegliere un palazzetto dello sport con capienza adeguata – cosa che peraltro avvenne per le successive edizioni del torneo). Per la sfida finale, il numero di spettatori superò le cinquecento presenze. I miei ragazzi si trovavano per la prima volta a giocare una partita in un contesto del genere, e l’emozione e la tensione che fino a prima di entrare sul campo sembrava essere stata sedata grazie anche al mio discorso pre-partita, divenne però palpabilissima sin dal primo tiro di riscaldamento. Cercai di rassicurare i ragazzi, parlando con alcuni di loro individualmente e facendogli fare uno “stretching” un po’ più lungo del solito, vista anche la stanchezza nelle gambe accumulata nei giorni precedenti. Dall’altra parte del campo, invece, guardando le maglie verdi della Benetton, non mi parve di vedere una situazione simile alla nostra. Gli avversari erano sicuramente più freschi e reattivi già nel riscaldamento e, sopratutto, facevano sempre canestro!

Purtroppo cominciarono a farsi strada nella mia testa pensieri non proprio positivi, del tipo: “Certamente saranno anche più bravi di noi, ma arrivano a questa partita dopo giornate meno impegnative delle nostre”; oppure: “Oh!, certo che loro si son riposati a dovere, avendo sempre mangiato a casa loro e dormito nei caldi letti di famiglia!”
Insomma, facevo già discorsi come se sapessi che avremmo perso. Pensieri negativi, da non fare: una lezione che ricordai nelle occasioni successive.

Iniziammo la partita schierando i quintetti migliori: Bendini, Romagnoli, Fin, Rota e Monari per Bologna, e Zanata, Loschi, White, Bettin e Gambarotto per Treviso. Nei primi due o tre minuti le due squadre si studiarono: loro fecero i primi tre canestri di seguito, abbastanza facilmente; noi invece, dopo alcuni tentativi di realizzazione con un gioco d’insieme, facemmo il primo canestro con Gabbino su sua azione forzata in penetrazione, arresto e tiro. 6 a 2 per loro, poi 8, 12 a 2… “Chiamo minuto? No…”. Facciamo canestro finalmente, ancora con Gabbino: “Dodici a quattro, rinuncio al minuto”. Recuperiamo due palloni di seguito con due buone difese e rimbalzi di Fin e Monari, ma
poi li sprechiamo in attacco. I nostri genitori sugli spalti capiscono il momento difficile e cercano di incoraggiare i ragazzi con un coro “Bologna, Bologna!”. Riusciamo ad avvicinarci a sei punti con un canestro di Flavio e uno di Monari. Siamo circa al settimo minuto di gioco del primo quarto e i nostri avversari stringono ancora di più in
difesa, soprattutto su Gabbino e Flavio, che da quel momento non riusciranno più a esprimere il loro solito gioco. Faccio qualche cambio per dare una scossa, ma nulla: finiamo il quarto sotto con un distacco sopra le due cifre.
Fu l’inizio della fine. Loro continuarono a giocare per tutta la partita al massimo, soprattutto in attacco, con il gioco “penetra e scarica” su Loschi (18 punti alla fine), con Zanata che imperversava ai rimbalzi e nel tiro ravvicinato, e infine con l’ala Bettin e il suo tiro da fuori. Ci fecero veramente sembrare quelli che non eravamo… una “piccola squadra” di provincia. A un certo punto il tabellone arrivò a segnare anche + 40 per i nostri avversari. Solo verso la fine della partita avemmo un sussulto d’orgoglio grazie a Bendini, Menarini e Pasquinelli, ma che non servì se non a finire la partita sotto “solo” di 29 punti: 82 a 53 per Treviso. Male, molto male. Non tanto per la sconfitta, ma per come era venuta a crearsi. Il primo a sentirsi in colpa di tutto fui io, perché non ero riuscito (non ancora!) a fare giocare al meglio i ragazzi. Certo, eravamo comunque arrivati secondi dietro a una super squadra che non avrebbe sfigurato neanche in un campionato di categoria superiore “Cadetti”. Avevamo battuto squadre più titolate di noi, come la Scavolini, Siena e Pordenone; ma arrivati a quel punto, essere sconfitti in questo modo sembrava inaccettabile. Mi sarebbe piaciuto rigiocare subito, per smentire quanto meno la convinzione un po’ supponente dei nostri avversari trevigiani di essere imbattibili. Dovemmo aspettare sei mesi. Mai un’attesa fu così lunga… eppure ne valse la pena.

I ragazzi parteciparono alla premiazione finale senza apparire delusi, ma sicuramente amareggiati per non aver avuto la possibilità di giocare alla pari dal punto di vista fisico e mentale. Infatti, ascoltati dopo, mi dissero di non aver sentito le gambe, in uno stato di stanchezza generale. Non a caso negli ultimi due giorni c’era stata la fila ai camper per riposare o farsi massaggiare. Raccontammo la cosa a Francesco Mangiacotti, il nostro preparatore atletico.

Alla sera, seppure molto stanchi, ritornammo a Bologna consci di aver dato il massimo e sopratutto sapendo che da quel momento in poi tutti avrebbero dovuto tener conto della Pontevecchio nel panorama delle papabili sedici finaliste del Campionato Nazionale. A pensarci bene, un risultato non da poco per una “squadretta” come la nostra.

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