Basket: 17°episodio de “I cinni del ’90”

Luci e ombre

Siamo così arrivati alla terza giornata delle finali nazionali, 1 luglio 2004. Vinta la seconda partita e passato il turno, ci eravamo infine assicurati il prolungamento della permanenza al torneo, almeno per un altro giorno.

Già qualificati, giocammo la nostra terza partita del girone, sempre all’aperto – stavolta all’Arena di Viale Trieste, campo situato sul finale Nord del lunghissimo lungomare di Porto San Giorgio –, contro i simpatici calabresi del Basket Rende (CS). Fu una partita strana. Un po’ per le poche motivazioni messe in campo da entrambe le squadre (non c’era più nulla in palio se non la nostra imbattibilità), ma soprattutto per il vento proveniente dal mare, che a quell’ora del giorno (circa le 19:00, direi) soffiava condizionando non poco le giocate della partita. Fu così che i ragazzi si ritrovarono a dover interpretare la direzione e l’intensità del vento prima di ogni tiro a canestro!

All’inizio mi arrabbiai non poco per la situazione. Poi, data la reazione dei ragazzi in campo, rischiai anche io quasi un sorriso alla vista delle traiettorie inusuali della palla. Comunque, alla fine vincemmo anche questa: 58 a 46. La nota positiva, dal punto di vista tecnico, fu che tutti e dodici i ragazzi ebbero modo di giocare, e solo due di loro non realizzarono punti.

Finita la nostra partita, verso le 21:00, io e Gessi decidemmo di saltare la cena per andare all’Arena Europa e vedere l’incontro fra la Scavolini Pesaro e la Stelle Marine di Roma, conoscendo così la nostra futura avversaria.

Ci muovemmo in auto, mentre la squadra, guidata da Fernando, tornò in albergo per gli ormai abituali massaggi gestiti dell’equipe formata da Francesco, Sandro Fin, Fabio e Fernando, oltre che per un pasto “frugale” secondo le imposizioni del nostro specialista della dieta “a zona” (rimando al sito internet di Wikipedia per una spiegazione dettagliata!). Un motivo in più per me e il mio collaboratore per allontanarci il più possibile all’ora di cena!

Parcheggiammo l’auto nei pressi dell’albergo a quattro stelle dove era alloggiata la Benetton. Mancava ancora una decina di minuti all’inizio della partita, e così cogliemmo l’occasione per comperare qualcosa da mangiare. C’era già abbastanza pubblico, e mentre mi accingevo a raggiungere un bar vicino, alzando lo sguardo verso l’albergo a quattro stelle riconobbi alcuni ragazzi della Benetton che si stavano disponendo lungo le finestre dello stabile. «Comodi vero? È come se fossero davanti al televisore» mi disse Gegé mentre camminavamo. «Sicuro! Certo, un altro segno della loro professionalità. Se l’avessimo saputo prima, anche noi avremmo potuto fare una cosa del genere» risposi con una punta di invidia, pur riconoscendo le loro qualità organizzative. Tornati dal bar con i nostri corposi panini (alla faccia di Francesco) ci sedemmo in tribuna dietro la panchina della squadra romana e incominciammo a prendere appunti. Cercammo di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili. Fui molto incuriosito dal fatto che i numeri delle maglie da gioco dei componenti della squadra di Pesaro fossero totalmente diversi da quelli indicati sulla rivista ufficiale consegnate dall’organizzazione.

“Che l’abbiano fatto apposta? I marchigiani ogni tanto fanno cose strane” pensai. “Si tratterebbe di una gran furbata!” In seguito chiesi in giro e mi confermarono che si trattava di una cosa studiata per depistare gli avversari, in particolare quelli contro cui non avevano mai giocato prima. “Ma dai!” Li avevamo già incontrati al torneo di Treviso, e ricordo che facemmo molta fatica (più mentale che fisica) per batterli. Se non ricordo male, vincemmo grazie a una grande prestazione al tiro da tre punti dei nostri. «Bisognerà prenderli con le molle» dissi al mio fido collaboratore a fine partita, dopo averli visti vincere di solo due punti (59 a 57) tra le recriminazioni dei romani sia in campo che in tribuna. Così detto, conquistai senza volerlo le simpatie dei vicini di posto, al punto da ritrovarli tifosi nella partita del giorno dopo proprio contro la Scavolini.

Verso le 23:00, Fernando ci raggiunse per informarci di avere ottenuto l’autorizzazione per un allenamento nella mattinata successiva, proprio sul campo dove ci trovavamo in quel momento. «Bene, ma a che ora potremo venire?» chiesi subito. «A un orario un po’ infame. Ma almeno l’abbiamo ottenuto… Come sai, Benedetti ha la priorità» mi rispose, con la sua simpatica parlata con forti inflessioni napoletane. «Dimmi mo’: a che ora dobbiamo ritornare qui domani?» chiesi, ormai sfinito dall’ennesima faticosa giornata. «Allora… La Benetton dovrebbe finire intorno alle undici, undici e mezza. Quindi noi potremmo…» Intuendo la risposta, lo interruppi innervosito, aggredendolo involontariamente: «Cosa vuol dire ‘undici, undici e mezza’! Non possiamo avere un orario preciso? Da cosa dipende?». A quel punto, innervosito anche lui, rispose: «Cosa vuoi che ti dica! Mi hanno detto così. Dipende da Benedetti della Benetton. Loro hanno prenotato il campo dalle 10:00 alle 12:00, e quindi avremmo dovuto andarci dopo mezzogiorno, con il sole che picchia sul campo! Allora, il gentile funzionario della FIP si è prodigato per chiedere all’accompagnatore dei trevigiani di chiedere a sua volta a Benedetti di terminare mezz’ora prima, in modo da farci iniziare l’allenamento tra le 11:00 e le 11:30 di domani, con ancora un po’ di ombra sul campo.

Quest’ultimo ha dato il suo assenso, condizionando però il nostro orario di inizio dal fatto di riuscire o meno a fare tutto quello che si è prefissato di fare domani con i suoi». Conclusa l’interminabile spiegazione, tirò il fiato per respirare. A questo punto, capendo che ormai tra me e Benedetti la “guerra” psicologica era in già atto, o meglio, era ormai venuta definitivamente alla luce del sole, conclusi dicendo: «Fernando, sai cosa ti dico? Domani noi veniamo qui e poi me la vedo io. Sai adesso cosa facciamo? Gessi vuole andare in albergo perché è quasi mezzanotte, noi due invece a piedi andiamo a trovare la squadra dei genitori al camper dei Monari qui vicino sul lungomare, a berci qualche cosa di buono. Mi è giunta voce che alla sera si divertono un mondo da quelle parti, non è vero?». Fece un cenno d’approvazione al goliardico invito e ce ne andammo da quel luogo, divenuto ormai troppo conteso e ambito.

I Monari avevano fatto il loro (e nostro!) campo base nel grande campeggio situato anch’esso sul lungomare, a circa venti minuti a piedi dal nostro albergo. Arrivammo che c’erano ancora molti genitori, ben predisposti dalla bella serata estiva. Dal nostro arrivo a Porto S. Giorgio era la prima volta che mi recavo al camper fra gli “adulti”. Erano praticamente passati tre giorni, e avevo al massimo scambiato con loro qualche battuta ai campi tra una partita e l’altra. Avevo proprio bisogno di fare quattro chiacchiere per rilassarmi.

«Ecco il nostro allenatore vincente!». Così mi accolse l’ingegnere, che si stava intrattenendo con un bel bicchiere di sano limoncello fatto dalle sapienti mani di Marco Monari. «Dai smettila, non è serata» risposi, schermendomi come facevo di solito con lui. «Datemi un bel limoncello, così mi passa». «Non sarai mica venuto anche tu a prosciugare le mie riserve!» intervenne scherzando Marco. Da lì partì una gioviale discussione fra tutti noi su chi avesse bevuto di più, per poi passare a mille altri argomenti culinari, vanto soprattutto dei bolognesi presenti. Non so se per il limoncello o per qualcosa che avevo mangiato al camper, ma da quella sera cominciai ad avere attacchi di colite spastica che mi fecero correre in bagno sempre più spesso nei giorni successivi. «Ma sei sicuro che sia stato per quello che hai bevuto o mangiato? Non sarà per caso la tensione crescente per quello che stai facendo?» mi chiese poi la mia saggia moglie Ombretta, al telefono la mattina successiva, mentre mi annunciava che sarebbe venuta a trovarmi in treno sabato e domenica, nel caso avessimo vinto contro la Scavolini. Sentendo questo, dopo averla salutata, scappai per l’ennesima volta in bagno.

Siamo quindi alla mattina del venerdì 2 luglio 2004. Dopo essermi momentaneamente ristabilito, parlai con il mio staff per organizzare la giornata fino alla partita della sera, prevista per le ore 19:00 all’Arena Europa. «Dunque  ragazzi, io farei così: Fino alle 10:30 lasciamo tempo libero ai ragazzi, poi incominciamo a prepararci per andare a fare allenamento, per poi finire, se tutto va bene, alle 13:00. Francesco: il pranzo lo faremo alle 13:15/13:30. Pomeriggio di riposo. Ore 16:15, riunione tecnica nella sala televisione, e poi direi cena anticipata alle 18:15, per poi essere di nuovo al campo da gioco per le 19:30, in modo da poter assistere al quarto di finale tra la Benetton e Roseto che giocano prima della nostra partita delle ore 21:00. Cosa ne dite? Ah! Fernando! Per l’allenamento fai indossare ai ragazzi la t-shirt colore azzurro con il nome stampato dietro. Mi raccomando: che la indossino tutti». Approvarono tutto quello che avevo proposto, ma solo Fernando ebbe la curiosità di chiedermi il motivo della t-shirt azzurra. «Così risalta di più la nostra abbronzatura e quella dei ragazzi!» risposi ridendo.

Alle undici puntuali eravamo tutti al parcheggio pronti per andare a fare allenamento. Potrete capire quanto gradito ai miei ragazzi, ma la prima “battaglia” tra noi e loro stava per iniziare e non potevo esimere nessuno dal parteciparvi.

Lo capì subito Gabbino, che con la sua t-shirt blu smagliante sulla pelle ancor più nera perché abbronzata, e con la scritta sul retro “Gabbino” in bianco, entrò per primo all’interno dell’arena, passando per un cancello che separava il parcheggio dal campo. Cancello che di solito avevo sempre visto aperto, ma che quella volta era stato chiuso, anche se non a chiave. Seppi dopo, per volontà di Benedetti, che non intendeva far passare nessuno mentre facevano allenamento. Gabbino era seguito da tutti noi in fila indiana, con me volutamente ultimo. Loro stavano ancora allenandosi al tiro dalla parte opposta del campo. Andò dritto, senza degnarli di uno sguardo, bordeggiando il lato sotto il canestro dalla parte sinistra, tirandosi dietro tutti gli altri che come lui misero così in bella vista le loro magliette blu con il nome stampato dietro. Fu in quel momento, quando fummo tutti e quattordici allineati sulla linea di fondo campo, che esclamai, alzando il tono della voce:

«Ragazzi per cortesia non disturbiamo, tiriamo dritto e usciamo dall’altra parte in attesa che finiscano. Dai!». L’allenatore della Benetton aveva seguito con gli occhi tutta la scena senza dire nulla, e solo a quel punto, dopo che io avevo “ripreso” i miei, si mosse per venire verso di me sorridendo. Una volta avvicinatosi, esclamò: «Ciao, coach! Come va? Lascia stare, non è un problema! Noi stiamo per finire con dei tiri liberi, puoi farli rimanere se vuoi». A quel punto allungando la mano per stringere la sua, dissi «Ciao… Tutto bene. No, no, non ti preoccupare. Li porto fuori. Tra dieci minuti ritorniamo e tu avrai finito, vero?». «Sì, sì, certo. Quando torni facciamo due chiacchiere, dai». Erano le 11:05. Alle 11:15 eravamo già di ritorno, e mentre i miei ragazzi si cambiavano sulle panchine del campo da gioco, mi fermai a parlare con il “nemico”. In senso sportivo, naturalmente.

Il nostro breve colloquio, dopo gli ovvi convenevoli iniziali, ebbe come soggetto principale i reciproci avversari della sera. Lui, descrisse a modo suo il nostro, e io a mia volta il loro. Non toccammo minimamente l’argomento delle nostre squadre, pur sapendo tutti e due molto bene che in caso di vittoria ci saremmo incontrati in semifinale. O meglio: lui tentò con due domande di carpire qualcosa che gli poteva essere utile nell’eventuale semifinale con noi, ma io mangiai la foglia e sviai. Poi, lo salutai dicendo: «Allora ci vediamo domani, no?». Il sorriso comparve sul viso di tutti e due, e ci facemmo un “in bocca al lupo” reciproco.

Il nostro allenamento durò circa un’ora e quindici minuti, incentrato sulla verifica di qualche accorgimento tattico e prove con qualche tiro. Alle 13:15 eravamo già in albergo per il pranzo. Durante la pausa del pomeriggio, mentre ero in camera (o meglio, in bagno), la tensione iniziava a provocare i suoi effetti. Le mie solite medicine non riuscirono ad attenuare il problema. Suonò il mio cellulare – era Fabio: «Ciao Lello! Oggi è il compleanno di Fernando, lo sapevi?» esordì lui, che continuò: «D’accordo con Camilla (la moglie di Fernando), noi genitori avremmo deciso di andare a mangiare la pizza tutti insieme dopo la partita di stasera, e lì fargli trovare una torta per festeggiarlo. Cosa ne dici di far venire anche i ragazzi della squadra?». Ascoltai con attenzione e risposi: «Sai già in quale pizzeria potremmo andare?». «Sì, è quella in mezzo al viale principale nell’isola pedonale serale, a 200 metri da dove giocheranno i ragazzi. Organizzandoci bene prima, anticipando l’ordine delle pizze che vorranno e considerando che il dolce sarà la torta di Fernando, per mezzanotte o poco dopo potranno essere a letto. Così potranno riposare per la partita della semifinale».

Lo ascoltai con attenzione e risposi: «Quale semifinale? Ah-ah!». Scherzai, per poi diventare subito serio: «Sono d’accordo. Facciamo come hai detto tu, a prescindere dal risultato finale di stasera. I ragazzi mangiano alle 18:30 – figurati come saranno affamati dopo la partita… E poi facciamo un bel regalo a Fernando». Ci salutammo dandoci appuntamento al campo da gioco.

Alla riunione tecnica del pomeriggio, riguardante la nostra avversaria pesarese, illustrai in modo dettagliato tutto quello che io e Gessi avevamo raccolto il giorno prima assistendo alla partita contro i romani. Mi soffermai su tre punti in particolare: la loro riconfermata pericolosità nel tiro da tre punti, la loro organizzazione di gioco difensiva – per l’esattezza quando alla chiamata “Pivot” da parte del loro allenatore si disponevano in una difesa a zona allungata a tre quarti campo con raddoppi sulla palla appena superata la metà campo negli angoli – e soprattutto il loro essere una squadra che non molla fino all’ultimo. I ragazzi mi ascoltarono prestando ancora più attenzione del solito.

Ormai avevano capito che quella sera non ci saremmo giocati solo l’inimmaginabile chance di arrivare tra le prime quattro in Italia, ma anche e sopratutto l’opportunità di giocare la rivincita con chi sei mesi prima ci aveva annichilito a Treviso.

Dopo aver mangiato “leggero”, alle 18:30 partimmo per il campo da gioco per vedere il quarto di finale tra la Benetton e Roseto. Fino a quella sera, la squadra veneta non è che avesse dimostrato un granché. Anzi, contro Moncalieri, battuta da noi a Domegge, aveva vinto soltanto di due punti, facendo molta fatica per imporsi. Quella sera però ai miei occhi riapparve quella squadra solida, organizzata e piena di talento che ci aveva sconfitto a Treviso. Lo pensai, ma non lo confidai a nessuno. Non volevo trasferire ulteriore tensione a chi mi stava attorno; e poi dovevamo ancora giocare la partita contro gli “scomodissimi” ragazzi di Pesaro.

Negli spogliatoi, prima dell’incontro, non aggiunsi molto a quello che avevo già detto nella riunione pomeridiana, se non di mantenere alta l’attenzione in difesa, in particolare sulle loro due guardie tiratrici Giampaoli e Fabri. Fu in quel momento che Gabbino disse qualcosa a conferma di quello che avevo appena detto su Giampaoli: «Oh! Ragazzi: “Giampa” lo conosco, è come ha detto Lello. Occhio!». A quel punto si aggiunse Gabbone, rinforzando con un «Dai,  andiamo! Forza!». Facemmo l’urlo tutti insieme e uscimmo a giocare.

Continua..

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