Basket: 2°episodio de “I cinni del ’90′”

Facevano parte del gruppo originario, formatosi nella stagione

1998-1999:

Gabriele Romagnoli e Tommaso Nassetti

Il primo, soprannominato “Gabbo” o “Gabbino” (diminutivo di Gabriele nello slang bolognese), era un ragazzo di colore con doppio passaporto Italia/Usa, figlio adottivo dei Romagnoli, che lo andarono a prendere da neonato negli Usa, a Columbus, Ohio. Adozione fatta in contemporanea con quella della famiglia Nassetti, sempre di Bologna, per Tommaso detto “Tommy”. Quest’ultimo farà parte del nostro gruppo sin dall’inizio, per poi smettere temporaneamente e riprendere dopo la nostra vittoria ai campionati italiani BAM. A parte la stranezza di essere riusciti ad adottare due bimbi negli Usa, c’è da aggiungere che, in un primo momento, Gabbo sembrò essere stato assegnato ai Nassetti, e Tommy ai Romagnoli. Questo episodio verrà ricordato da papà Nassetti durante quasi tutte le partite che i due ragazzi disputeranno insieme, con una frase rivolta ai Romagnoli: «Oh, tuo figlio doveva essere il mio, invece a me è toccato il più tristo!». Gabbino era veramente molto bravo per la sua età. Un mancino, con talento e fantasia: veniva da pensare che uno dei suoi familiari di origine fosse stato un giocatore di basket americano. La sua passione, la voglia di primeggiare e, non ultimo, il suo innato talento furono alcune delle chiavi, se non le principali, di tutta questa vicenda.

Flavio Rota

Detto in seguito dagli amici “Fla”, figlio unico nato a Bologna, ma con radici ancora ben salde in quel di Napoli. Di carattere scontroso e insofferente alla fatica sia fisica che mentale – quando da lui ritenuta al di sopra del livello tollerabile per la sua persona. Quanta fatica, di conseguenza, da parte mia e di chi lo allenerà successivamente, per riuscire a coinvolgerlo! Ma, come vedremo, per quel tanto che ha voluto concedere, si può dire che alla fine abbia avuto ragione lui. Fernando, il padre di Flavio, napoletano doc, ancora più a sinistra di me in politica, dipendente ancor oggi dell’Inps di Bologna, sarà il “mio” dirigente accompagnatore per tutto il tempo dedicato al gruppo nel quale il figlio sarà uno dei principali protagonisti. Come il Carnevali-padre, è stata una persona per cui dire grazie è poco.

Leonardo Menarini

Detto “Leo”, o anche “il Capitano”, perché stando a quanto dicono i documenti ufficiali (o meglio: Gollini), è stato il primo bimbo a iscriversi ai corsi di minibasket della Pontevecchio. A quei tempi aveva corporatura e altezza minuta, ma con un carattere forte e fiero con cui riusciva benissimo a competere con gli altri e molte volte a primeggiare. Con il passare del tempo si ritagliò un posto importante nel gruppo come “sesto uomo” di rottura, sia in attacco che in difesa. Lui e il fratello Federico, nati in una tipica famiglia borghese bolognese, sono stati e sono ancora elementi trainanti nella sezione basket.

Giacomo Bendini

Detto “Benda” o “Jack”, a seconda del momento e della situazione. Come gli altri abitava e abita tuttora nelle vicinanze delle palestre del Quartiere Savena dove ci allenavamo. Fin dai primi giorni, la sua figura minuta ma grintosa va associata a quella del nonno Suppini, un ex funzionario della banca presso cui lavoravo. Un nonno imponente per altezza e muscolatura, innamoratissimo di suo nipote Jack – da lui accompagnato, spronato, senza prevaricazioni, in ogni occasione, fin dal principio. Con lui ho avuto diverse occasioni di colloquio per scambi di idee su tutto, e non solo sul nipote, forse perché politicamente era molto vicino alle mie idee. Ritornando a Jack, diventerà il mio punto di riferimento in campo come playmaker. “Il tuo playmaker”, come mi faceva sempre presente Andrea, padre di Giacomo. Altro genitore che va ricordato non solo per la sua eccentrica personalità messa in mostra in svariate occasioni, ma anche per la sua grande disponibilità verso tutti.

Stefano Villani

La prima caratteristica che notai in lui fu la capacità di riuscire a non sudare molto! Si scherza, ma penso che la sua presenza nel gruppo fu motivata più dalla voglia di stare con gli amici che dal desiderio di imparare a giocare a basket. Provammo sin dall’inizio a coinvolgerlo e a lavorarci (secondo me sarebbe diventato un buon tiratore da tre), ma con risultati alterni. A tutte le finali importanti fu presente. In particolare a quelle di Porto San Giorgio, dove non giocò, perché ce lo portammo con il braccio ingessato a causa di un incidente in motorino. Ma, a dir la verità, anche senza il gesso non lo avrei fatto giocare molto… Un ragazzo dolcissimo, amato dal gruppo, che si è trasformato in un portafortuna imprescindibile per noi e i ragazzi. L’ultima volta che l’ho visto fu l’anno successivo alla conquista dello scudetto: venne con il padre a salutarci in palestra. Da quella occasione non ho più avuto modo di incontrarlo.

Nella stagione 1999-2000, con l’arrivo di un secondo gruppo di ragazzini del 1990, si aggiunsero:

Enrico Carnevali

“Enri”, uno dei piccoli terribili. Forse non dotato del talento dei migliori, ma con una grande passione e spirito di applicazione. Penso sia stato il maggior bersaglio delle mie sfuriate. Lui però non faceva una piega, anzi, aumentava la sua grinta e determinazione, forse per dimostrami il suo valore. Verso la fine dell’ultimo anno del nostro rapporto diretto – e in un contesto al di fuori del basket ufficiale, a Cesenatico, in estate – finalmente mi mandò a quel paese… per usare un eufemismo! Abita tuttora a 30 metri dalla nostra palestra “Pertini”, e dal quel campetto all’aperto dove sin da piccoli lui e gli altri si ritrovavano per interminabili partite. Suo padre Fabio, “l’Ingegnere”, è una persona che non finirò mai di ringraziare per quanto fece, ha fatto e sta facendo per la Pontevecchio. Tra i suoi innumerevoli meriti in questa fantastica avventura, voglio segnalare quello di aver sopportato le mie quotidiane chiamate mattutine per qualsiasi progetto, anche il più strano, che potesse essere al momento ritenuto di utilità per i nostri ragazzi. Dalle 8:30 alle 9:30, mentre entrambi ci recavamo al nostro principale lavoro – lui a Reggio Emilia e io a dirigere una delle filiali bancarie in provincia che ogni due o tre anni mi assegnavano.

Luca Rimondi

Non ebbe grandi spazi per giocare partite importanti, ma sin da subito capì quale poteva essere il suo ruolo in palestra. Veniva ad allenarsi sempre con voglia e felice di essere accettato dal gruppo. Dal punto di vista tecnico, la sua sfortuna fu quella di avere degli amici con più talento di lui. Ma questo lo sapeva, e non ne fece un cruccio. Anzi, dimostrò più volte di essere orgoglioso di far parte del gruppo. Ragazzo di poche parole (non che fossi molto più loquace di lui), ma molto intelligente. Sono certo farà strada nella vita.

Michele De Fazio

Detto “l’Airone” per la sua struttura fisica alta ma sottile, con braccia e gambe lunghissime. Ragazzo che anno dopo anno seppe ritagliarsi un ruolo sia nel gruppo che in partita. Aveva la capacità, pur giocando un numero di minuti limitato, di entrare immediatamente nel vivo della partita con grande incisività. Di intelligenza superiore alla media – a scuola ha sempre avuto medie stratosferiche. Un altro che con me in cinque anni avrà scambiato sì e no dieci, venti parole! Ma lui aveva la capacità di capire al volo cosa doveva fare e come farlo. Purtroppo, non essendo provvisto di grande talento, dovette lavorare il doppio per arrivare dove invece i suoi compagni migliori arrivavano con facilità, aiutati da madre natura.

Giulio Bosi

Detto “Spada nella Roccia”, per via della sua passione, ribadita in più occasioni, per il famoso film di animazione della Disney. Nei primi anni, veniva in palestra più per il padre, appassionatissimo di basket, che per sua volontà o piacere. Interpretammo così la sua presenza. Anche per il fatto che erano più le volte che era a casa “ammalato” di quelle in cui era presente. Poi, forse per propria scelta e con l’aiuto del gruppo, le sue presenze diventarono più costanti, e qualcosa riuscimmo a fare sotto l’aspetto tecnico. Ma, alla fine, il gioco del basket non riuscì a entrare del tutto nella sua vita, probabilmente con sua grande felicità.

Alessandro Calzolari

Detto “Clark”, da Clark Kent, alias di Superman, per via delle sue incredibili trasformazioni tra dentro e fuori il campo. Fuori docile e buono, dentro una “bestia”! Credo che dal primo ingresso in palestra in poi non abbia mai saltato un allenamento o una partita, se non per motivi di malattia o studio. Altro ragazzo intelligente, con un percorso scolastico super. Dotato di una ammirevole determinazione, ma con zero talento. Non ha mai mollato, anzi: più crescevano le difficoltà più lui si impegnava per superarle. Se gli avessi detto che per giocare avrebbe dovuto buttarsi in un pozzo, lui l’avrebbe fatto. Più di una volta per recuperare un pallone a terra o su un rimbalzo ha rischiato la vita! Comunque, dobbiamo a lui gran parte del merito per la nostra imbattibilità – per via di un suo canestro incredibile allo scadere, in coast to coast, contro la Virtus Bologna, in una partita del campionato BAM 2004, con tutti i “migliori” giù per falli o assenti per infortunio. Grande Ale! A fine partita fu portato in trionfo da tutti i suoi compagni!

Bagheri Shervin

Detto “Il Persiano”, o “Gatto Mammone”, per via dei genitori iraniani e della sua “picaglia” tenera, nonostante una struttura fisica imponente per quell’età. Divenne il primo cambio dei lunghi, anche se gli piaceva molto tirare da tre… con la distanza NBA. Non ho mai capito se fosse l’insistenza del padre, ex discreto giocatore in Iran (a sentir lui), oppure perché all’epoca fosse già al corrente del fatto che in un futuro imminente i giocatori piccoli o lunghi avrebbero dovuto saper tirare dalla lunga distanza. Diciamo che, alla fine, se non per grandi vantaggi personali, ha avuto ragione dal punto di vista della tattica di squadra. Dopo aver vinto uno scudetto pur non partecipando alle finali, si ritirò dall’attività agonistica.

Giacomo Fiumi

Giacomo rimase con noi poco tempo, pur avendo credenziali interessanti sia fisiche che tecniche. Il primo anno si autoescluse a seguito di un grave infortunio a tutte e due le gambe, giocando a scuola con i compagni. Ritornato nella stagione 2002-2003, non riuscì purtroppo a inserirsi. Andò negli anni successivi a cercare di seguire le orme del fratello a San Lazzaro, e ora gioca nelle serie minori bolognesi.

Il gruppo definitivo venne così a formarsi.

Gabriele Fin

Detto poi “Gabbone”, per l’altezza e per differenziarlo da Gabbino Romagnoli, “il Colored”. Arrivò sul finire del settembre 2001, quando ancora io e Gegè Gessi stavamo organizzando uno dei primi allenamenti della stagione con il gruppo ’90, appena consegnatoci da Goffredo. Mi dissero che c’era un nuovo arrivo, un ragazzino di nome Gabriele Fin, accompagnato dal padre, fuori dalla porta della palestra. «Fuori dalla porta? e perché?» chiesi, avviandomi verso l’entrata per andare a vedere chi potesse mai essere questo ragazzino accompagnato dal padre. La porta, di solito sempre aperta, per qualche motivo era chiusa nonostante il caldo: e così vidi attraverso la vetrata le sagome dei Fin, padre e figlio. Erano due figure alte uguali, ma prima che facessi in tempo a rifletterci, i due entrarono e mi vennero incontro. Be’, i miei occhi non avrebbero voluto vedere altro che un ragazzino così fatto: alto come me, se non leggermente di più (io sono 1,74, lui lo era a 11 anni!), viso dolce, con braccia e gambe lunghe, sguardo vispo e attento. In un attimo mi illuminai di immenso, e non feci nulla per nasconderlo. Il padre mi disse che al figlio sarebbe piaciuto provare a imparare a giocare, e che lui era d’accordo. Finora aveva fatto calcio, ma vedendolo crescere a vista d’occhio pensava che il calcio non fosse fatto per lui. Meglio provare con la pallacanestro. Scoprii molti mesi dopo che il padre di Gabbone Fin, Alessandro, era un quotato allenatore di calcio a Bologna, sia a livello giovanile che senior, ed era stato un buon giocatore di pallone. Non ultimo, era soprattutto un grande tifoso della Fortitudo, come molti altri genitori del gruppo ’90. Queste notizie mi hanno sempre incuriosito, alcune volte alimentando, a torto, anche una certa strana ansia: lui, ex giocatore, allenatore di calcio e sfegatato tifoso della Fortitudo mi affidava il figlio, con tutte le aspettative che si possono immaginare. Ma avevo sbagliato a creare queste “paranoie”, e me ne resi finalmente conto l’anno dopo.

Intanto, con l’arrivo di Fin, la squadra per la stagione 2001-2002 era formata.

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