14 Nov Pontevecchio Atletica alla maratona di New York
La nostra atleta Veronica Restuccia alla maratona di NY
Sembra ieri quando ho scoperto l’esistenza di parole come “ripetute” e “interval training”. Sembra ieri quando ho scoperto che queste ripetute vanno misurate col cronometro, oltre che con le gocce di sudore. Sembra ieri quando mi hanno spiegato che il cronometro è preistoria e adesso tutti usano il Garmin. Sembra ieri, eppure sono passati anni da quando ho iniziato a solcare la pista di atletica dell’Arcoveggio.
Muovevo i primi passi da atleta amaranto con una goffaggine incredibile, ma non ho mai dubitato di aver fatto la scelta giusta. E così sono diventata parte di una squadra chiamata “Pontevecchio”, un nome che fino a quel momento per me identificava solo la palestra Pertini, due canestri e una palla da basket. Si, perché in fondo io rimango un arbitro… e, anche quando non ho il fischietto, in pista mi sento un piccolo furetto grigio che insegue i propri sogni.
Questo che sto per raccontarvi, però, di sogni non è il mio. È il sogno di un papà, del mio papà. Come regalo per la pensione mi chiese di tagliare insieme il traguardo della maratona di Roma, io e lui fianco a fianco. Quella data però era troppo vicina per arrivarci con una condizione decente e così, per gioco, decidiamo di iscriverci alla lotteria che metteva in palio pettorali per la maratona delle maratone: New York.
Papà non ha mai corso una gara, né ha mai partecipato a una “tapasciata” in vita sua. Io… io sono un caso a parte! Ho corso non so quante mezze maratone, 10 maratone e 5 ultramaratone… più una serie di campestri spacca-gambe! Lui vince la lotteria, io no. Destino crudele. Il pettorale per la Grande Mela non si può cedere e lui decide che senza di me non ci andrà.
La follia è di famiglia, o meglio, la normalità non ci appartiene. In poco tempo decido di architettare una sorpresa: una di quelle costose ma da togliere il fiato. Nel più totale silenzio familiare, complice qualche amico runner, prenoto volo, viaggio e la mia iscrizione per New York. Poi convinco mamma e papà a prendersi un weekend di relax e assistere al mio arrivo a Faenza, in quella Piazza del Popolo che per noi amanti delle lunghe distanze significa solo una cosa: la 100 km del Passatore! Convinco anche mio padre a venirmi incontro gli ultimi km, con una scusa banale: consegnarmi una t-shirt asciutta per le foto all’arrivo. Quello che non si aspettava, è che fosse una maglietta speciale… Di maglie in realtà ce n’erano 2, in versione dad&daughter: “Papà fai la valigia: ti porto a New York per la tua prima maratona!” ci avevo fatto stampare.
La data X è arrivata in fretta. Quel 5/11/2017, o meglio scritto all’americana 11/05/2017, non lo dimenticheremo facilmente. La vera maratona di papà è fatta di ore e ore di camminata in solitaria, senza una tabella rigida, con il mio vecchio Garmin a fargli da motivatore digitale e la consapevolezza che non sarebbe stato solo neanche un km.
Mi presento in aeroporto con la mia immancabile felpa amaranto, come gli atleti veri. Come un pacer speciale che guida il debutto del suo atleta prediletto. Ma papà non è un atleta, è uno dei tanti aspiranti finisher. Non lo sa ancora, forse spera di correrla tutta la sua prima maratona, ma avrà tempo di scoprire quanto sia dura. Spero solo non gli scoppi il cuore all’arrivo, ecco!
Spille, pettorale, barrette, maglie personalizzate, kway da lanciare al terzo miglio… C’è tutto. E noi siamo pronti. Il ponte di Verrazzano ci accoglie a corsie aperte, nell’ultima griglia di partenza, quando ormai i top runner sono quasi arrivati in fondo alla gara. Un inno americano che ti fa sentire protetto, in quel clima di attentati che non spaventa ma fortifica la passione. Abbiamo voglia di sorridere e di goderci ogni singolo istante.
Si parte: noi, la pioggia e una solo obiettivo in testa: la medaglia. La nostra avventura è stata cullata dai consigli di Laura Fogli e suo marito Giuseppe, che il giorno prima ci hanno spiegato il percorso. Sapevamo che a Brooklyn ci avrebbe accolto una folla festante… Ma la realtà è il pubblico di New York riesce comunque a sorprenderti: italoamericani che iniziano a correrti di fianco mentre ti raccontano dei loro avi e di quanto gli piaccia tornare in Italia a trovare i parenti lontani.
Ragioniamo in miglia, perché concentrarci su 26,2 è più facile rispetto ai 42 km e 195 metri. Camminiamo, passo dopo passo. Partiamo lenti, la prima previsione sul crono finale è di 7h41’00”. Non dico nulla, vedo papà star bene e sono fiduciosa. L’inizio è sempre, inevitabilmente, lento: siamo in migliaia tutti accalcati. Al primo traguardo intermedio, 10 km, la proiezione si abbassa e il Garmin mi trilla “Direzione gara: tempo stimato di completamento primo sogno 07h10’00”. Stavolta lo riferisco a papà, che si esalta perché sa che speranzosamente ci eravamo dati come obiettivo 6h59’59”.
La gente è fantastica: ti incita, urla il tuo nome, ti offre pane e biscotti appena sfornati. E io che credevo che il pane buono fosse solo il nostro! Arriviamo alla mezza, sotto un pioggia incessante, pronti ad affrontare il pezzo più duro, lì dove non c’è tifo, ma solo il rumore dei tuoi passi.
Caro Queensborough, non ti temiamo. Ho in mente la parole di Laura: dobbiamo mantenere la calma e la lucidità mentale, camminare e mangiare qualcosa in autogestione perché, in fondo a quel pezzo di metallo imponente sospeso in aria, c’è il Bronx. Nella mia testa me lo immagino come in un film: il silenzio prima del boato. Una discesa, una curva a gomito e un urlo liberatorio, carico di adrenalina. C’è un tunnel umano di gente in fondo a quel rettilineo che aspetta ogni singolo corridore, ti spingono, ci spingono col loro fiato e con le loro mani. Impossibile avere freddo: batti tanti cinque che manco un giocatore NBA in tutta la sua carriera cestistica!
Ok babbo, adesso inizia la gara. Corriamo le discese a passo “tarta-runner”, camminiamo per recuperare fiato e goderci il sogno. Al 35° km e non so che miglio, recuperiamo Paolo, un esordiente che ha promesso al suo papà, ormai in cielo, che un giorno avrebbe corso la maratona, proprio come faceva lui. Ci racconta la sua storia, il suo infortunio non ancora guarito, un’operazione alla schiena inevitabile e tre donne all’arrivo che lo aspettano. Lo invitiamo implicitamente a salire sulla nostra scialuppa siculo-bolognese.
Abbiamo una tattica, sparare le nostre ultime cartucce allo scoccare del 25° miglio… Perché il 24° in salita e siamo sicuri che lì recupereremo tutti quelli scoppiati! Li superiamo senza pietà sportiva, ma con il sorriso. Questo dovevamo fare e questo abbiamo fatto. Il cartello Central Park indica solo una cosa: 800 miseri metri tra noi e i nostri sogni, tra le nostre scarpette e la finish line.
06 ore. 41 minuti. 39 secondi. Papà Salvatore non ci crede. Si getta a terra in lacrime con la bandiera tricolore in mano. Con l’altra mano teneva stretta me. La sua piccola, pazza pischella. La sua Veronica, a suo agio tanti su un parquet vestita da arbitro, quanto in canottiera Pontevecchio a correre per le strade del mondo.
Oltre il tempo, abbiamo corso oltre il tempo. Perché il cronometro, in fondo, dovrebbe essere un assillo solo per gli atleti professionisti, che dell’atletica hanno fatto il loro mestiere. Sono armoniosamente belli, loro, come Shalane Flanagan, l’americana che aveva annunciato il ritiro e a 37 anni si ritrova regina di New York. È stupenda, una vera icona di stile. E in foto non sembra neanche sudata.
Oltre il tempo, perché quando parli con chiunque non sappia nulla di maratone ti farà solo una domanda: hai corso New York? E se proprio è tanto curioso: quanto è lunga?
Oltre il tempo, perché niente e nessuno ti restituirà mai quei momenti preziosi, e allora tanto vale goderseli lentamente.
Oltre il tempo, perché gli arrivi condivisi sono istanti magici che durano in eterno.
E allora io vi auguro di andarci, alla vostra maratona di New York. Vi auguro anche di fare un tempo che vi consenta di essere premiati, nominati sui giornali, ricordati negli annali sportivi. Ma vi auguro soprattutto di aspettare l’arrivo di mamma e papà, del vostro compagno, di vostro figlio. Vi auguro di vivere la trepidazione dell’arrivo della persona che amate, che magari ha camminato per tutti i 42,195 km ma che sarà comunque il vostro campione del mondo. Ciò che conta è la medaglia, uguale per tutti.
Le emozioni racchiuse in quel pezzo di metallo, invece, tenetele per voi e ricordatevene quando avrete un momento di difficoltà. Oppure condividetele sempre, con chi pensate possa sorridere con voi e di voi.
Oltre il tempo, c’è la vita. Oltre il tempo ci sono i sorrisi. Oltre il tempo c’è la mia Pontevecchio, perché senza di voi oggi non sarei una maratoneta. E neanche il mio papà.
Veronica #verarunner
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