Basket: 15°episodio de “I cinni del ’90”

Le Finali di Porto San Giorgio

Per raggiungere Porto San Giorgio da Bologna (270 km di autostrada) occorrono due ore e mezza, per la maggior parte trascorse costeggiando il litorale tra Rimini a San Benedetto del Tronto (AP). Il viaggio fu tranquillo e sereno, e io e Fernando lo trascorremmo parlando di quanto tutti – noi, ragazzi, tecnici e famiglie – avessimo fatto per raggiungere questo insperato risultato. La soddisfazione traspariva sincera dalle nostre parole, eppure nessuno dei due pensò mai di nominare la parola “Scudetto”. Certo, il nostro desiderio era che in quella occasione riuscissimo a dimostrare il nostro valore, confermando di meritare ciò che avevamo realizzato, ma niente di più.

Una volta in albergo, ci fu illustrato il programma della manifestazione. Solo in quel momento mi resi conto che, a parte la prima partita, avremmo giocato sempre in luoghi all’aperto denominati “Arene” . Se in un primo momento lo trovai quanto meno strano per un evento così importante, pensandoci meglio non mi sembrò poi così male: “Siamo in estate, fa caldo e, se i campi all’aperto sono messi in modo da essere regolari e accoglienti sia per i giocatori che per gli spettatori, potrà essere sicuramente meglio dal punto di vista sia tecnico che dello spettacolo. Contemporaneamente però, e improvvisamente, mi tornarono in mente ricordi di quando da piccolo giocavo a basket all’aperto in parrocchia a Pavia, sovrapposti ad altri, molto più recenti, legati ai miei ’90. Li rivedevo nelle loro interminabili sfide sui campetti all’aperto a fianco della palestra Pertini. Un segno del destino o del coinvolgimento emotivo cresciuto con l’arrivo in un posto per molti bello per le passare le vacanze, e per me vera e propria porta dell’olimpo del basket giovanile?

La squadra dei ragazzi, contemporaneamente a Gessi e Francesco, arrivò in albergo nella tarda mattinata, alla spicciolata, in compagnia della “squadra” dei genitori al completo. Tutti presenti: la madre di Flavio; Camilla (l’unica a soggiornare nel nostro stesso albergo, ovviamente in camera con Fernando); i coniugi Carnevali (la madre Sabrina e Fabio, già “pronto all’uso”); i coniugi Bendini (la madre Roberta e il padre Andrea che di lì a poche ore sarebbe divenuto, insieme al suocero Suppini, il “capo ultras” dei genitori); la famiglia Minetto (la madre Barbara, il padre Andrea e l’inseparabile macchina fotografica, sempre pronta a immortalare tutto e tutti); la Famiglia Romagnoli (la madre Cinzia e il padre Giorgio, sempre più orgogliosi del loro figlio Gabbino); papà Fin (prontissimo a massaggiare le gambe dei ragazzi); la famiglia Menarini al completo (mamma Edy, padre Claudio, fratello Federico e il nonno Calzolari); la Mamma Venturoli (che per motivi di lavoro arrivò in treno con mia moglie Ombretta solo la mattina del sabato 3 luglio, giusto in tempo per soffrire ed esultare con tutti noi); le famiglie De Fazio, Rimondi, Gnudi, Calzolari e il padre di Villani (silenziosi spettatori in partenza, ma destinati con il passare dei giorni a diventare i primi tifosi sugli spalti); e infine papà Marco Monari, la madre Loretta e il fratello Matteo con il loro camper in perfette condizioni e pronto a riproporsi per l’ennesima volta come il “meeting point” preferito di tutti noi.
A questo punto eravamo tutti pronti, bisognava aspettare solo poche ore.

Alle 16:45 di martedì 29 giugno 2004 ebbero inizio le nostre finali nazionali.

Le partite del girone “C”

«La prima partita è sempre la più difficile in questo tipo di tornei. Dobbiamo stare tranquilli però, partire il più forte possibile per far capire ai nostri avversari che questa partita la vogliamo vincere noi». Questo, oltre alle “solite” indicazioni tecnico-tattiche, fu il succo del mio discorso nel pre-partita contro Pordenone. I ragazzi mi presero alla lettera e, con una applicazione perfetta della nostra difesa a tutto campo run-and-jamp, lasciarono per molti minuti del primo quarto a zero gli avversari, rifilando un parziale di 15 a 2 per noi. Tutti molto bravi, in particolare Flavio, Jack e Alex Monari del quintetto iniziale. Negli altri quarti la nostra determinazione e voglia non venne meno. Finalmente, ben coadiuvati da Gabbino e Gabbone, anche i vari Rimondi, Venturoli, De Fazio e il nuovo arrivo Gnudi trovarono modo di giocare i loro primi minuti in una partita a carattere nazionale. Finale per noi, 93 a 60.
Non male, e soprattutto riprova del fatto che non eravamo assolutamente appagati di quanto fatto fino a quel momento della stagione. Finita la partita, come programmato, i ragazzi si fecero diligentemente massaggiare da Francesco, papà Fin e Fernando.

L’albergo, come dicevamo, era sul bel lungomare della località marchigiana, un po’ lontano dai campi da gioco, ma comunque molto accogliente. Fummo sistemati tutti al secondo piano, in modo che le camere dei ragazzi fossero facilmente “controllate” sia da noi tecnici che da Fernando, aiutato in modo impeccabile dalla moglie Camilla.

Francesco e Gessi erano assieme in camera; io da solo, in attesa che arrivasse mia moglie. In albergo, nella tarda serata del primo giorno – e fu così poi per tutta la manifestazione – lessi insieme a Gessi e Fernando i comunicati ufficiali con le disposizioni e i risultati delle partite nella giornata. Conoscevo solo il risultato di due delle partite del giorno. Avevo assistito con interesse alla sfida vinta bene dall’Ancona di Panzini sul Rende, essendo la vincitrice destinata ad affrontarci nel giorno successivo. Ma sapevo anche della Benetton che, come previsto, aveva strapazzato la Tiber Roma. Quest’ultima notizia l’avevo ricevuta dall’allenatore della Tiber, che alloggiava nel nostro stesso albergo. «Ti confermo che sono fortissimi come dicono tutti, non c’è stata partita» mi disse, con la sua simpatica parlata romana. A quel punto ne approfittai per avere ulteriori notizie tecniche sui veneti. Nulla di nuovo rispetto a quello che già sapevo: conoscevo i giocatori migliori (Loschi, Zanatta, Sandri ecc.), la loro perfetta organizzazione di gioco e altro ancora. Lo ringraziai comunque. L’unico risultato della giornata non in linea con le nostre aspettative fu la sconfitta dei nostri “amici” di Rimini contro Napoli. Tutte le altre favorite avevano vinto bene.

In quella prima sera decidemmo anche l’organizzazione delle giornate: orari, tempi liberi, abbigliamento, pasti e altro. Sia Francesco che Fernando, si dimostrarono all’altezza della situazione, sgravando me e Gessi da queste importanti e delicate incombenze non “tecniche”. Francesco prescrisse l’incontestabile menu per la cucina (io l’avrei contestato ben volentieri, ma per la causa questo e altro!), mentre Fernando curò le incombenze organizzative: la decisione sulla polo o la t-shirt di rappresentanza da indossare per l’occasione (ne avevamo in tutto quattro – una manna per una “squadretta” come la nostra – aveva tenuto a precisare il nostro “presidentissimo” Franco prima della partenza, scherzando, ma non troppo), l’organizzazione delle macchine dei genitori per il trasporto dei giocatori e, non ultimo, la cura dei rapporti con i rappresentanti della Federazione.

Sembravamo una squadra vera, alla pari di quelle “professioniste”. Ormai eravamo tutti convintamente calati nella parte.

La mattina dopo lasciammo riposare i ragazzi fino a circa le dieci dimattina e, mentre erano ancora in camera, io, Gessi e Francesco ci riunimmo per preparare la partita contro Ancona che si sarebbe svolta alle ore 18:00. La vincitrice sarebbe passata con un turno d’anticipo ai quarti di finale, diventando una delle prime otto in Italia! «Giocheremo all’aperto, all’Arena Europa, stasera, e mi dice Fernando che il posto si trova nel centro di Porto San Giorgio, non molto lontano da qua. Forse è il caso di andare a fare un sopralluogo con i ragazzi stamattina, così, oltre a tenerli impegnati, verifichiamo direttamente l’ambiente» dissi ai due miei interlocutori. «Anzi, non sarebbe male riuscire a farci un allenamento nel futuro, se mai le cose si mettessero per il verso giusto».

Per la partita, dato il tipo di giocatore quasi immarcabile che era Panzini (alla fine risultò il miglior realizzatore del torneo con 34,7 punti di media partita!), decidemmo di utilizzare contro di lui normali contromisure, badando piuttosto che i suoi compagni di squadra facessero meno canestri del solito. In parole povere: «Lasciamo che lui faccia i suoi soliti 30 punti, ma teniamo sotto i dieci punti gli altri due suoi compagni».

Era la prima volta che visitavo la cittadina marchigiana, ma non si scostava di molto da quelle a noi note della riviera romagnola. Il caldo incominciava a farsi sentire e le spiagge, già attrezzate per la stagione, erano abbastanza frequentate. Arrivati nella zona centrale, cercammo il campo passando dal viale principale, che alla sera scoprimmo poi diventare isola pedonale dall’inizio della ferrovia al piazzale vicino al mare. Il campo era piazzato proprio all’inizio di questo viale, all’interno di un piccolo parco sotto la ferrovia trasformato per l’occasione in un’arena del basket. Non era male: il fondo verde era stato fatto da poco con quel materiale particolare che si usa anche per i campi da tennis in cemento. Le tribune erano state costruite solo ai lati del campo, mentre dietro ai canestri c’erano da un lato gli spogliatoi e dall’altro poche sedie. Proprio dalla parte di quest’ultime, a trenta metri circa di distanza, si ergeva un bell’albergo a quattro stelle, con a fianco un parcheggio per una ventina di macchine. Non essendo previste partite al mattino, non c’erano che poche persone nei pressi, e i ragazzi, non avendo palloni a disposizione non intendevano rimanerci ancora per molto. Mentre stavamo decidendo di tornare, arrivò Fernando per darci le ultime notizie: «Ho scoperto che, praticamente, se continueremo nel nostro cammino (tutti fecero gesti scaramantici!) le prossime partite le giocheremo qui: e guarda caso, i nostri “amici” della Benetton sono alloggiati proprio in quell’albergo lì». Mentre ci diceva questo, indicò l’edificio. «Certo che Benedetti le pensa tutte. Così facendo, senza sforzi, potrà vedere molte partite dalla finestra dell’albergo. Poi, quando giocheranno qui, potranno venire sul campo già pronti e cambiati» gli risposi, lasciando trapelare un po’ di invidia. «Comunque, Fernando, quando potrai, chiedi all’organizzazione, nel caso andassimo avanti (altre scaramanzie del caso), di poterci fare allenare su questo campo alla mattina» proposi, senza spostare lo sguardo dal campo. «Già fatto» mi rispose il fido collaboratore, «Ma mi hanno detto che dovranno verificare se ci sarà spazio per farlo perché…». Lo interruppi un brusco: «Perché? Che problema ci sarà mai! Alla mattina non si gioca…» E lui: «Sì, non si gioca… Ma Benedetti (Benetton) ci ha anticipato e ha già prenotato le ore migliori per la sua squadra!». «Che du maron!» risposi sconsolato, e stavo per “darla su” (per dirla alla bolognese), quando il mio spirito agonistico ebbe il sopravvento e dissi a Fernando di chiedere ugualmente uno spazio a qualsiasi ora, anche a mezzogiorno. A quel punto i ragazzi, con Gessi e Francesco tornarono al nostro albergo (solo due stelle…), mentre Fernando mi portò dall’altra nostra squadra, quella dei genitori, perché volevo salutarli e vedere come si fossero sistemati.

Dopo il pranzo non certo luculliano predisposto dal ferreo Francesco, verso le tre del pomeriggio fu organizzata la prima nostra riunione tecnica, in un sala appositamente concessaci dal responsabile dell’albergo. Era la prima volta che facevo questo tipo di riunione con i ragazzi, e questo inizialmente provocò in loro un po’ di ilarità. Successivamente, l’appuntamento si trasformò in una loro esigenza prioritaria, perché ne compresero l’utilità, eleggendolo anche a rituale scaramantico. Mi furono di grande aiuto Flavio e Gabbone Fin, e non solo in questo caso.

Nelle riunioni, non avendo a disposizione riprese televisive da mostrare sui nostri avversari di turno, utilizzai una lavagna porta-blocco per disegnare quello che io e Gessi eravamo riusciti a raccogliere con la nostra visione diretta delle partite. (“fogli bianchi” su un cavalletto che Fernando, con santa pazienza, cercò e trovò in una sperduta cartoleria, girando per qualche ora per le strade di Porto San Giorgio, imprecando non poco nei miei confronti!). In questa prima riunione, oltre a dare una descrizione generale degli avversari, focalizzai l’attenzione di tutti su quello che avevo deciso alla mattina con Gegè e Francesco. «Difendiamo normalmente su Panzini, tanto in un modo o nell’altro i suoi trenta punti li farà. Invece, concentriamoci di più sui suoi compagni! La differenza tra noi e loro, secondo me, è che noi siamo più squadra, e tutti quanti possiamo incidere; nel loro caso, più del 50% delle loro  conclusioni sono “prese” Panzini». Mentre tentavo di essere il più semplice e chiaro possibile, forse enfatizzando un po’ troppo le qualità balistiche del principale giocatore avversario, intravidi sulle facce di alcuni espressioni quanto meno dubbiose nei confronti delle mie considerazioni.

A Quel punto chiesi a Gabbino e a Gabbone cosa ne pensassero, in particolare del “loro” amico Lollo Panzini (lo avevano conosciuto nei mesi precedenti giocandoci contro e avevano fatto amicizia allenandosi insieme a lui nei primi raduni interregionali per le selezioni della nazionale di quella età). Gabbino snobbò un po’ la mia strategia, mentre il suo più riflessivo e attento compagno ci diede una perfetta descrizione delle caratteristiche tecniche dell’avversario: «Ha buonissimi fondamentali offensivi ed è un discreto difensore. Fra le cose migliori l’arresto e tiro, se batte l’uomo verso destra, e l’andare al ferro se lo batte verso sinistra. Strano, per un ambidestro come lui. Forse l’unica cosa che subisce un po’ è l’essere attaccato uno contro uno, perché quando si mette male si innervosisce». «Perfetto» dissi io, «Ora sappiamo cosa fare». Sciolsi la riunione dando appuntamento nella hall per la partenza al campo.

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